Sui Passi della Fede

– Padre Nostro –


Don Bruno Maggioni
Don Bruno Maggioni

INDICE:


1. Padre Nostro
2. Che sei nei cieli
3. Sia santificato il tuo Nome
4. Venga il tuo Regno
5. Sia fatta la tua volontà
6. Come in cielo così in terra
7. Il nostro pane quotidiano
8. Rimetti a noi i nostri debiti
9. Come noi li rimettiamo ai nostri debitori
10. Non ci indurre in tentazione
11. Ma liberaci dal male
12. I mille volti del Padre Nostro
Rimetti a noi i nostri debiti

La domanda “rimetti a noi i nostri debiti” suppone che in noi sia vivo il senso della colpa. Qualora mancasse, la domanda del Padre Nostro perderebbe la sua verità: uno stereotipo, una parola rituale, non più una vera domanda. Purtroppo non si tratta di una consapevolezza scontata, perché il problema non è di riconoscere semplicemente i propri limiti o i propri sbagli, ma di avere la chiara percezione delle proprie colpe morali, responsabili, liberamente commessi: azioni che offendono Dio, non solo se stessi o gli altri. Questa percezione “teologica” delle proprie azioni è già dono di Dio. E difatti è quando sente i passi e la voce del Signore che Adamo prende coscienza della sua disobbedienza; è quando è raggiunto dalla parola dei profeta che Davide avverte la gravità del proprio peccato. La Scrittura è convinta che non si misura rettamente il proprio debito, se ci si confronta con se stessi o con gli altri: occorre confrontarsi con la Parola di Dio. Può succedere di essere ciechi al punto da non più vedere le proprie colpe, come già accadeva ad alcuni della comunità di Giovanni (1 Gv 1,8). E c’è persino chi vede le responsabilità degli altri e non le proprie. Confrontandosi con la Parola di Dio si avverte che il debito – anzi i debiti, al plurale – non è soltanto questione di precise trasgressioni della legge, che pure ci sono: e le molte omissioni? Il padrone della parabola dei talenti esige più di quanto ha dato: condanna il servo perché pigro e dimissionario, non perché particolarmente cattivo: non ha sperperato, semplicemente non ha trafficato. E ad essere tagliato e bruciato è l’albero che non porta frutto (Le 13,6-9). Bastano queste poche annotazioni per dirci che la domanda del Padre Nostro mette in questione l’uomo nella sua interezza. In questione è lo slancio in avanti, verso Dio («con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze»), non soltanto il male che si fa. La versione di Matteo non parla direttamente di peccati, ma di debiti, una metafora che ricorre con frequenza nel parlare di Gesù, anche se non sempre vi si trova la parola precisa: per esempio nella parabola del creditore senza pietà (Mt 18,23ss), dell’amministratore astuto (Le 16,1-8), dei talenti (Mt 25,14-30), dei due debitori (Le 7,41ss), dell’uomo trascinato in tribunale (Le 12,51ss) al quale conviene accordarsi lungo la strada per non essere gettato in prigione. Il fatto che l’immagine del debito ritorni con frequenza nel parlare di Gesù suggerisce che per Lui essa si prestava bene a ritrarre la situazione dell’uomo: davanti a Dio, ma anche di fronte agli altri. L’uomo è per essenza debitore: di fronte a Dio, dal quale ha tutto ricevuto, senza aver nulla in cambio da ridare. E di fronte agli altri: quante sono le cose ricevute (a incominciare dalla propria esistenza!), che non si possono restituire? Il vocabolo opheilema dice l’obbligo che sorge di fronte a qualcosa che si è ricevuto. Penso che è su questo ricevuto che debba concentrarsi la nostra attenzione. Non immaginiamo un Dio che vuole di ritorno qualcosa per sé, bensì un Dio che vuole si capisca che ciò che si possiede è ricevuto, dono, e dunque qualcosa per cui ringraziare e, soprattutto, qualcosa da non trattenere egoisticamente per se stessi. E’ per questo che il servo della parabola, che si è visto condonare un debito immenso, avrebbe dovuto, a sua volta, condonare un piccolo debito al suo compagno di lavoro (Mt 18). A questo punto la metafora del debito – che sin qui si è rivelata molto utile – non basta più. E’ in gioco qualcosa di diverso dalla semplice cancellazione di un debito materiale. Se si esce dalla metafora – che è commerciale e giuridica – per coglierne il significato reale, si comprende che qui si tratta di un debito che è un’offesa. Non tocca i beni del creditore, ma la persona. Il “peccato” è il rifiuto di un dono, non semplicemente l’insolvenza di un debito. Si diceva che l’uomo è debitore per essenza. La domanda del perdono è perciò il modo giusto di stare davanti a Dio, nella preghiera come nella vita. E’ l’atteggiamento assunto dal pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me» (Le 18,13). Enumerare puntigliosamente le proprie opere, come ha fatto il fariseo, non serve: non si raggiungerà mai, in ogni caso, la parità fra il ricevere e il restituire, e il debito rimane. L’unica soluzione aperta all’uomo è la domanda del perdono. Se il mondo regge è perché Dio lo perdona sempre. Racconta un’antica storia ebraica che Dio, dopo aver creato il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi: lo metteva dritto e cadeva, lo metteva dritto e cadeva. Allora Dio creò il perdono e glielo pose accanto, e il mondo stette in piedi. Anche la domanda del perdono è formulata alla prima persona plurale: rimetti a noi i nostri debiti. Perché al plurale? Probabilmente per più motivi. Il soggetto primario della preghiera è la comunità: il Padre Nostro è una preghiera corale. E’ anche vero, inoltre, che ci sono colpe comunitarie, collettive, non solo individuali. Tuttavia non è questa la direzione principale della domanda: in tal caso sarebbe stato preferibile dire il “nostro peccato”, anziché i “nostri peccati». Il peccato collettivo non relega in secondo piano la responsabilità personale, come a volte sembra di avvertire quando si parla dei peccati della società, colpa di tutti e di nessuno. Nel Padre Nostro è anzitutto in questione la mia e la tua responsabilità. Si dice nostri perché si tratta, appunto, dei miei e dei tuoi peccati. Ma il motivo principale del plurale è un altro, comune a tutte le richieste del Padre Nostro: si chiede perdono per sé e per tutti. Anche la domanda del perdono è missionaria. Neppure qui il cristiano si isola. Chiedere perdono per gli altri è la preghiera che lo stesso Gesù sulla Croce ha rivolto al Padre (Le 23,34). La preghiera del perdono è di per sé la più umile delle preghiere, ma è anche la preghiera che più delle altre rischia di diventare retorica. Non così nel Padre Nostro, dove la domanda è sobria, schietta, oserei dire piena di dignità. Nessuna traccia di aggettivi o avverbi che dicano la nostra umiliazione, né si suggerisce di fare un qualche gesto penitenziale, come battersi il petto e simili. Al Padre Nostro basta un semplice verbo all’imperativo: «rimetti». Ovviamente l’imperativo non dice qui la pretesa, certo però la confidenza, e soprattutto l’urgenza: quando il bisogno è impellente non c’è spazio per inutili parole, si domanda e basta. Sobrietà ammirevole e ricca, tanto ricca da farci capire – come dimenticarlo? – che siamo “figli” anche se peccatori, e che il perdono lo stiamo chiedendo a un Padre, non a un padrone.
(Don Bruno Maggioni: estratto da “Padre Nostro” Editrice Vita e Pensiero 1998)